Dall’Oscurità verso la Luce”English

 

Questo artista Visionario, definito “IL PROFETA DEL NUOVO GOTICO”, ha attraversato diverse fasi di ricerca.Il suo ultimo periodo è stato da lui definito “Nuovo Gotico”,un mondo affascinante e complesso dove, in una preziosa forma di Miniatura contemporanea di grandi o piccolissime dimensioni, si fondono passato, presente e futuro in un linguaggio originalissimo, unico nel suo genere. Con le stesse caratteristiche esegue anche progetti artistici, opere e ritratti su commissione.L’artista tiene stages di disegno, pittura, miniatura, conferenze di simbologia dell’arte anche fuori regione. Nel 1997 ha aperto a Sarzana, una Libera Scuola Laboratorio di Disegno,Pittura e Miniatura che da due anni si trasferita presso il suo Studio d’Arte, con sede a Paghezzana di Fosdinovo ( MS). Il “Codex Colombanus” è un Grande Codice miniato secondo l’Antica tradizione della pittura medioevale, reinventato e reinterpretato da Piero Colombani con preziosissime miniature e capoversi miniati, testi filosofici sull’arte interamente dipinto e scritto a mano con vari esempi di preziosa calligrafia a inchiostro. Un’opera magistrale da lui iniziata nel 1997, tutt’ora in divenire in un work in progress realizzata da un artista contemporaneo che usa le antiche tecniche della pittura per raccontare e confrontare il mondo moderno e il mondo antico: un ponte fra passato, presente, futuro. Questo Codice, nel 2013, è stato esposto con grandissimo successo, per sei mesi, a Firenze, presso l’antica Biblioteca Riccardiana a Palazzo Medici Riccardi, nell’ambito della mostra “Miniatura Viva” organizzata dalla rivista internazionale ALUMINA – Pagine Miniate – e dalla Biblioteca Riccardiana. La rivista ha dedicato un ampio servizio-intervista a Piero Colombani, definendolo il “Profeta del Nuovo Gotico” per il suo originale ed innovativo linguaggio contemporaneo e per la sua maestria tecnica secondo gli insegnamenti degli antichi maestri.
Link a SERVIZIO SU PIERO COLOMBANI Rivista ALUMINA N. 41 Maggio 2013

 

HANNO SCRITTO DI LUI

COMMENTI CRITICI ESTRATTI DAL CATALOGO DELLA MOSTRA DI PIERO COLOMBANI: “NUOVO GOTICO – ARCHETIPI IN METAMORFOSI”
SARZANA  FORTEZZA FIRMAFEDE  LUGLIO 2022

 

COLOMBANI IL “TODESCO”,
DALLA LUCE ALL’OSCURITÀ
di Vittorio Sgarbi
Diavolo di un Colombani. Di quelli benigni, che ti vorrebbero spaventare facendo-ti da Cerbero in un viaggio nelle tenebre, ma che poi, a conti fatti, si dimostrano benigni come dei Mefistofele in disarmo che ti portano a passeggio per i giardinetti. Le tenebre nelle quali Colombani vorrebbe addentrarci sono quelle, illuministica-mente parlando, della civiltà occidentale pre-moderna, il Medioevo, che oscuro però non era affatto, tutt’altro. Era solo improntato a costumi di mente e di com-portamento che col senno del poi, appunto il moderno, sarebbero stati giudicati prevalentemente irrazionali, quando invece hanno fatto da loro fondamento cul-turale. Raffaello, nella famosa lettera a papa Leone X sul recupero e la conserva-zione di Roma antica, bollava il Gotico come gusto dei barbari, ovvero del degra-dato “todesco” – nell’Italia dell’epoca si aveva un’idea piuttosto vaga di cosa potesse essere la “Todeschìa”, comprendendola grossomodo nell’area del Setten-trione d’Europa che dalle Fiandre arriva fino ai confini con la Russia – ignaro del debito che il mondo civile doveva sentire per la grande eredità greco-latina. Da lì, una lunga scomunica del Gotico che è giunta fino all’Ottocento romantico, quan-do il gusto anche tecnologicamente più evoluto del Medioevo ha avuto uno straor-dinario recupero in chiave moderna, nel pensiero come nella materia manufatta, in letteratura come in architettura e in ogni altra forma di espressione artistica, con i valori una volta ritenuti negativi che vengono ribaltati, contrapponendo all’aridità e alla limitatezza della ragione il fascino del mistico, dell’esoterico, del fantastico, nell’anelito comune a cogliere lo spirito del mondo anche nei suoi aspetti più macabri e inquietanti.
È un recupero d’ordine intellettuale, in termini di prevalente sentimentalismo nostalgico, che anticipa quello che poi avrebbe confermato la scrupolosità della ricerca storica, con i vari Le Goff e soci a riconoscere nel Medioevo, quello gotico specialmente, la radice del concetto stesso di Europa e di Occidente così come oggi siamo soliti intenderlo, insieme di culture nazionali anche notevolmente diversifi-cate fra loro, in conseguenza della frammentazione dell’universo greco-romano, che però si riconoscono in una madre spirituale comune, il Cristianesimo. Se Raf-faello poteva sentirsi cristiano, italiano e quindi anche occidentale – non avrei dubbi sul fatto che lo avvertisse – lo doveva principalmente a quel Medioevo goti-co che ingratamente vituperava.
Ecco, direi che seguendo questo discorso potremmo considerare Piero Colombani un figlio superstite dell’Ottocento romantico e di quello “todesco” più di ogni al-tro, un contemporaneo ideale, insomma, del Novalis di La cristianità, ovvero l’Europa (Die Christenheit oder Europa), più ancora del Wilhelm Wackenroder di Effusioni del cuore di un monaco amante dell’arte (Herzensergiessungen eines kunstliebenden Klostersbruders), testo che segna il taglio netto della cultura nor-dica col filoellenismo neoclassico propugnato da Winckelmann, in cui all’artista medievale viene riconosciuta una funzione speciale di mediazione, senza prece-denti nelle epoche storiche passate, nello stabilire un rapporto costante fra la co-munità di cui fa parte e l’anima del creato in cui si sustanzia la presenza stessa di Dio.
Colombani deve credere ancora a quel cruciale ruolo mediano; differentemente da quanto i più superficiali non credano, non mira a operare per sé stesso, narciso, isolato da tutto e da tutti come se riconoscesse nel proprio particulare, per dirla con Gucciardini, l’ombelico del mondo, ma per mettersi a disposizione dell’umanità, quella a lui vicina come quella più lontana, nel tentativo di recuperare anti-chi sensi di vita in fase di definitivo disconoscimento sotto i colpi di un progressismo tecnologista che tutto sembra potere fare, ma a cui sembrano sfuggire, piuttosto drammaticamente, i significati primi del tutto.
In questa prospettiva, Colombani s’impegna a rivelare al suo uditorio, come un antico monaco che predica dall’alto di uno spuntone di roccia, quanto intrigo possa ancora suscitare il mondo quando sottratto alla luce più positivista del progresso per essere reimmesso nella penombra dell’incerto, del misterioso, del magi-co che una volta la faceva da padrona, riflesso di un inconscio individuale e collettivo con cui poco la ragion pura poteva fare. Se è vero che davanti alla comprensione dei significati primi ancora non abbiamo compiuto passi davvero decisivi, non è dissennato pensare che i metodi intuitivi praticati nel passato siano del tutto inservibili. E se invece portassero a qualcosa, fosse anche solo a livello di suggestione? Non è forse il mondo, per come ci poniamo di fronte a esso, una suggestione continua, visto che ci è impossibile inquadrarlo in un modo che sia totalmente autonomo dalle fisime culturali, psicologiche e caratteriali di ciascun individuo?
È chiaro che Colombani, per quanto diavolo, non è mentalmente così compromesso da ritenere che il Medioevo gotico possa essere ripristinato in modo integrale nel presente come se niente fosse. Non sarebbe neanche un buon affare ritornare, con un’ipotetica macchina del tempo, a tanti secoli addietro, statistiche alla mano avremmo oltre il novanta per cento di possibilità di finire fra le persone che in quell’epoca erano povere, ignoranti e destinate a morte precoce per via delle sca-denti condizioni di vita (solo l’“histoire événementielle”, come la chiamavano gli studiosi della rivista “Annales”, può farci credere che una volta esistessero, fra una guerra e l’altra, solo sovrani, aristocratici, ecclesiastici, intellettuali e artisti). Quello che Colombani sostiene è altro: se la storia è per forza residuale, nel senso che potrebbe essere scritta solo su ciò che ha prodotto documento, allora ciò che di più vivo ci ha lasciato sono i linguaggi visuali, concretizzatisi attraverso speci-fiche pratiche materiali, di carattere artigianale, con cui gli uomini del passato si esprimevano. Testimonianza viva perché non si tratta di cosa morta, destinata a rimanere mummificata nei musei, nelle biblioteche e nei monumenti come se la si potesse considerare solo nella sua distanza irrimediabile rispetto alla dimensione dell’odierno, ma di un patrimonio codificato che, una volta conosciuto, può essere adottato e messo in uso come si fa ancora, per esempio, con la lingua latina, in una forma, guarda a caso (Raffaello se ne farà una ragione), risalente non agli anni dell’impero romano, ma ai secoli seguenti la sua caduta.
Cosa diremmo oggi di chi parlasse normalmente in latino, come si fa ancora nella Curia vaticana? Che sarebbe una cosa bizzarra, vista la disponibilità di lingue moderne di impiego e universalità maggiori, che rivelerebbe una particolare devo-zione nei confronti della tradizione e di un certo passato, ma anche un certo pia-cere elitario nel comunicare solo fra i pochi che possono capire. Più o meno do-vremmo valutare allo stesso modo il Nuovo Gotico proposto da Colombani. Un Gotico sui generis che la ha curiosità, dal punto di vista dello storico dell’arte, non tanto di essere improntato sulla centralità della cultura “todesca” nel modo raffa-ellesco in cui prima la si è intesa, che sarebbe del tutto giustificato, ma di conside-rare di questa cultura manifestazioni che sono già in piena combutta col successi-vo gusto rinascimentale. Pensiamo a Bosch, per esempio, di cui Colombani riprende le celebri “uova fatali”, mutuando da Bulgàkov, per imbastire su di esse variazioni extra-latine sul tema del grottesco e dell’occulto, in conformità a un’a-nima nera, da diavolaccio impenitente, a cui non rinuncia mai ad attingere: può essere considerato gotico?
Di fatto Bosch appartiene al Rinascimento, anche se vede bene Colombani nel constatare la persistenza di tanti motivi ispirativi riconducibili al Medioevo nor-dico, e a quello gotico specialmente, all’interno del suo formidabile immaginario creativo. Analogamente, la Deposizione dalla Croce e il più recente Dio è morto, i quadri che mi sembrano in assoluto i più ambiziosi di Colombani, ci presentano l’autore come un fedele prosecutore di fiamminghi rinascimentali già ampiamente addestratisi alla resa volumetrica e dello spazio in profondità, secondo cadenze che da una parte associano il nitore cristallino della luce all’espressionismo caro in particolare ai quattrocenteschi germanici, abituati ad avere a che fare con le du-rezze congenite della xilografia, dall’altra con le forme più allentate, ma monu-mentalmente irrigidite così come vengono adottate nel Mediterraneo iberico e nelle terre da esse dipendenti politicamente, Italia compresa. Allora ciò che Co-lombani riporta a galla, sottraendolo alle insidie della facile convenzione, dello schematismo più automatico e grossolano, è un Gotico inteso non tanto come ca-tegoria storica, ma come categoria dello spirito, disposizione mentale e creativa che sopravvive nel tempo anche alle sue epoche di più coerente appartenenza, potendo giungere comodamente fino ai nostri giorni.
Dove invece il Gotico delle figurazioni piatte e dei fondo oro pare ristabilire le giuste gerarchie storiche è nella produzione grafica di Colombani, culminante in un’opera di straordinaria portata per la dedizione maniacale e la minuziosità ar-tigianale fuori dal comune che sta comportando (l’opera, cominciata nel secolo scorso, rimane aperta nelle intenzioni dell’autore, teoricamente anche oltre la sua stessa esistenza, nella speranza che ci possa essere qualcuno disposto a continuar-la): il Codex Colombanus. Se anche avesse trovato spunto iniziale nel Codex Se-raphinianus di Luigi Serafini, come non escludo affatto che sia successo, il Codex di Colombani è un’altra cosa rispetto ad esso, ponendosi come esercizio di stupe-facente mimèsi amanuense, con la calligrafia che instaura la corretta simbiosi, secondo le classificazioni intellettuali di una volta, fra arte ornamentale mechani-ca, inferiore, e l’arte libera della letteratura, superiore, che di nuovo non vuole fare della passiva imitatio, ma attiva aeumulatio, sviluppando una cifra à la ma-niere de… per essere infarcita di contenuti quanto mai personali e comunque le-gati alla contemporaneità vigente nell’agganciarsi al passato, come a recitare in costume una commedia ambientata nei nostri tempi.
Ci si chiederà inevitabilmente, anche ammirando nella maniera più sincera la pe-rizia e la preziosità con cui Colombani dipinge all’interno delle lettere capoverso, se imprese titaniche come il suo Codex siano proprio necessarie. Mi permetterà Colombani di riprendere alcune considerazioni che feci a suo tempo nel commen-tare la performance per alcuni versi non troppo dissimile di un suo collega, Enrico Mazzone, capace di illustrare l’intera Divina Commedia in una bobina di carta lunga novantasette metri e alta quattro. “Alla fine, non esiste esercizio intellettua-le che non sia inutile”, sostiene Jorge Luis Borges nel Pierre Menard, ricorrendo a uno dei suoi apparenti paradossi che in realtà sono dimostrazioni di una lucidità di giudizio con pochi eguali. Quindi, di norma, anche il Codex Colombanus non andrebbe ritenuto ascrivibile all’ambito del necessario. Necessario è altro, ciò che ci fa sopravvivere rispondendo ai nostri bisogni più elementari, ciò che ci fa rivol-gere a qualcosa di più in alto di noi, che sia una divinità o un pensiero anche dif-ferente, un’idea del mondo.
Ma l’arte non è forse il campo del non necessario a cui si finisce per riconoscere un valore tale da farcela sentire come qualcosa di più in alto di noi, e anche come qualcosa in grado di farci sopravvivere nei nostri bisogni più elementari? E’tutto qui, in fondo, il senso del gioco dell’arte, scoprire quanto possa diventare indi-spensabile per le nostre esistenze ciò che in partenza non dovrebbe esserlo. Basta che non un’intera comunità, cosa che sarebbe comunque auspicabile, ma una sola parte di essa trovi una qualche forma di appagamento in un’opera, ed ecco che quell’opera diventa da un momento all’altro patrimonio condiviso di piacere, am-mirazione, conoscenza, emozione. Certo, in teoria si potrebbe fare a meno dell’ar-te, ma le nostre vite ne risulterebbero così impoverite interiormente da farci regredire a uno stadio di sostanziale inciviltà. Non sarà un caso se non conosciamo alcuna tribù passata e presente che non abbia avuto a che fare con l’espressione artistica, in qualunque modo si sia manifestata, anche in maniera assai diversa da come intesa nelle cosiddette civiltà evolute. E allora, se c’è qualcosa di inutile, sono solo le considerazioni di chi ritiene l’arte inutile. 

 

IL PONTE DI PIERO COLOMBANI
di Gianfranco Malafarina
Direttore della Rivista “Alumina-Pagine Miniate”
Ho parlato poco, anzi pochissimo, con Piero Colombani, che ho conosciuto sul finire del 2012 tramite sua moglie, Carmen Bertacchi, e che alla fine di maggio del 2013, con il suo Grande Codice Miniato, è stato la guest star di una mostra sulla miniatura contemporanea allestita alla Biblioteca Riccardiana di Firenze per celebrare il Decennale della rivista “Alumina. Pagine miniate”. Ma credo che dialogare con gli artisti o leggere ciò che essi scrivono di se stessi, aldilà dell’indubbio arricchimento sul piano personale e umano che questo comporta, finisca talvolta per travisare gli esiti di una lettura diretta e senza mediazioni della loro opera, poiché nel linguaggio palpitante dell’opera di ogni grande artista (e Piero Colombani è senza dubbio artista grande, anzi grandissimo) c’è sempre un quid, un “di più”, un coefficiente di ineffabilità che esorbita ed esonda dall’area del linguaggio, della verbalizzazione “discreta” e sequenziale del discorso critico, foss’anche il più ricco e articolato e simpatetico messo in opera all’occorrenza dal più agguerrito e sottile dei critici. Se è vero infatti, come afferma la nota proposizione di Wittgen-stein, che “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, proprio questo, alla fin fine, è il destino dell’arte, o almeno di quell’arte – ed è il caso di Piero Colombani – che agita e muove fin dal primo sguardo sedimenti profondi e inconfessati della nostra psiche, andando a toccare corde che tutti noi spesso esitiamo anche solo a sfiorare con lo strumento fragile e ambiguo delle parole.
Censendo tuttavia un poco alla buona quanto altri hanno detto e scritto di lui, ho l’impressione che ci sia un fil rouge, un eccipiente a mio avviso fondamentale, nell’arte di Piero Colombani, che mi sembra sia sfuggito o non sia stato sufficientemente sottolineato da quanti, prima di me e con ben altri strumenti critici lega-ti anche a una assidua frequentazione personale con l’artista, si sono accostati alla sua pittura. Una pittura a un tempo creaturale e metamorfica, visionaria e magmatica, intrisa di una vasta congerie di suggestioni letterarie e figurative che l’artista stesso non si cura di occultare ma si compiace quasi di ostentare dopo averne fagocitato voracemente i nutrimenti più essenziali, ma non per questo una pittura meno priva di una nativa, dirompente, quasi selvaggia volontà di sublima-zione estetica cucita sul rovescio di una profonda, sofferta macerazione interiore. Ho parlato di eccipiente, e non di componente, perché la personalità di Piero Colombani, nonostante quella definizione di Profeta del Nuovo Gotico coniata dalla critica e che pure gli calza a pennello, non è di quelle che si possano agevolmente collocare nell’alveo di una o più correnti o tendenze, remote od attuali, le cui risultanze facilitino la lettura dell’esegeta, essendo i rimandi e gli influssi di cui abbonda la sua pittura, come del resto le riflessioni che Colombani stesso intreccia su di essi con dovizia di colte letture e appropriati riferimenti, null’altro che l’entro-terra, l’humus, il terreno di coltura di una caparbia, inesausta volontà di supera-mento che in un certo senso finisce per corrodere dall’interno, svelandone i conge-gni, la stessa portata del repertorio figurativo, pur imponente, cui l’artista attinge a piene mani con onnivora curiosità ma anche con l’indiscutibile originalità del suo magistero pittorico.
Fatta questa doverosa premessa, aggiungo che il fil rouge, l’eccipiente di cui par-lavo, probabilmente non senza fondamento, è il sentiment di un espressionismo estremo, laddove con questo termine mi riferisco non solo, e non tanto, all’acce-zione storica di quella complessa corrente d’avanguardia che nasce in Germania all’inizio del Novecento come reazione all’impressionismo, al naturalismo e all’in-cipiente “disagio della civiltà” innescato nella società tedesca da un convulso pro-cesso di industralizzazione e dal tracotante militarismo guglielmino, quanto in senso lato a quell’atteggiamento dell’artista che si propone di tradurre nell’opera le proprie emozioni, i propri sentimenti, il proprio mondo spirituale, adottando un linguaggio personale, libero dai vincoli e dalle consuetudini della tradizione domi-nante e spesso contraddistinto, in pittura, da una forte accensione cromatica e da una incisiva condotta grafica. In questa accezione, si può dire che l’espressioni-smo è un modo di intendere l’arte che a grandi linee attraversa tutta la vicenda figurativa dell’uomo e che troviamo formulato al massimo grado in artisti come Van Gogh, Ensor o Munch. Comune a questi artisti, come pure a molti altri di tendenza affine, è un segno che nella definizione dei volti, dei corpi, del paesaggio, si presta sovente a un certo grado di deformazione anatomica o prospettica, men-tre il colore, abdicando a una funzione di resa naturalistica del reale, assume va-lenze soprattutto psicologiche, e mira in tal modo a sottolineare, con luci e ombre o licenze cromatiche, il significato espresso dal dipinto.
Non a caso, infatti, nell’opera di Piero Colombani mi è sembrato di cogliere, oltre a talune tangenze con l’arte di Gauguin e Van Gogh (laddove il primo carica le sue ardite stesure cromatiche di significati simbolici e di recondite motivazioni misti-co-religiose, mentre il secondo vive sulla propria pelle, in prima persona, la con-traddizione tra la carica dirompente e liberatoria dell’espressione artistica e un assetto sociale alienante ed eterodiretto), gli echi di altri due precursori dell’e-spressionismo propriamente detto come James Ensor ed Edvard Munch, essendo il belga il portatore di un umore acre e grottesco, tradotto in una materia croma-tica densa e pastosa, vibrante di tonalità calde ed accese, mentre il norvegese, dal canto suo, è latore di un messaggio di immedicabile pessimismo nordico, di un senso tragico della vita che lo porta a trascurare l’apparenza fugace e transeunte della visione oculare per dare corpo ai propri fantasmi e alle proprie ossessioni, inventando temi che pur calati entro parvenze di natura essenzialmente simbolica o figurativa, non rappresentano altro che meditazioni soggettive, rovelli interiori, intuizioni profonde trasposte nel linguaggio della linea e del colore.
In Colombani, di fatto, a queste remote ascendenze si assomma la linea del simbo-lismo germanico e franco-belga di fine Ottocento, assimilata attraverso l’opera di Böcklin e di Khnopff e corroborata, starei per dire quasi inconsapevolmente, dal-la duplice svolta impressa poco dopo alla pittura, in area mitteleuropea, da un lato dalla nervosa sensibilità materica e gestuale del tardo impressionismo dei te-deschi Corinth e Liebermann, dall’altro dalla protesta antidecorativa attuata allo scoccare della finis Austriae, con non minore virulenza cromatica, tematica e com-positiva, dalla generazione postsecessionista di artisti come gli austriaci Egon Schiele, Oskar Kokoschka e Richard Gerstl. Maestri, come è noto, che pur muo-vendo da esperienze diverse, si muovono nella direzione di un rinnovamento (ecco la parola, ahimè, ancora così attuale da risultare finanche usurata) che all’incirca negli stessi anni trova i suoi accenti stilisticamente più crudi ed esacerbati nell’o-pera dei protagonisti della Brücke (non a caso attenti alla grande lezione del goti-co tedesco) e poco dopo nell’aspra denuncia della Neue Sachlichkeit.
Un secolo dopo, con l’opera di maestri come Piero Colombani e altri a lui affini, siamo così alle prese con il problema che sempre si pone all’artista allo scadere dei secoli al tramonto e agli albori dei nuovi, cioè quello di porsi (anzi, di ergersi) nei confronti della tradizione con una funzione di “ponte” verso il futuro che non sia di mera decostruzione più o meno avanguardistica dei retaggi del passato, ma di questi si nutra per disporsi a un balzo poderoso verso l’inconoscibile. È in fondo, se vogliamo, lo stesso “grido” lancinante e oscuro lanciato da Grünewald e Cara-vaggio, da Géricault e Munch e raccolto e fatto proprio, ai primi del Novecento, dai giovani della Brücke. Ed è l’eterna, immutabile funzione della cultura, alme-no nel senso che ad essa ha dato un sociologo come Zygmunt Bauman. Questo “ponte” di Piero Colombani, folto di ombre e di fantasmi, di archetipi sibillini e di recondite suggestioni distillate nella materia preziosa del simbolo e del colore, è quanto l’artista ha oggi da offrirci per ricondurci con il linguaggio della pittura, ove sia ancora possibile, a quella dimensione “creaturale”, cui accennavo sopra, vanamente evocata nel secolo scorso da un maestro come Giovanni Testori e or-mai forse irrimediabilmente perduta. Quel sentimento in cui, per alcuni di noi, ma non per tutti, il senso del limite si intreccia con il senso del mistero nei confronti dell’Essere, facendoci avvertire con tremore, ma anche con un barlume di speran-za, la presenza indecifrabile del “numen”.

 

IL “NUOVO GOTICO” E L’OPERA AL NERO
Lo spirito dantesco in Piero Colombani
di Mirco Manuguerra
Presidente del Centro Lunigianese di Studi Danteschi
“È giunto il tempo di decidere se stare dalla parte dei Mercanti o da quella degli Eroi”. Questo aforisma è valso al prof. Claudio Bonvecchio il Premio ‘Pax Dantis’ nel 2009. Ebbe-ne, non c’è alcun dubbio che il Maestro Piero Colombani – così come noi del Centro Luni-gianese di Studi Danteschi (sodalizio di cui fa parte anche l’editore di questo prezioso cata-logo) – questa scelta cruciale l’abbia operata già da molto tempo. Dichiaratamente ribelle al mondo attuale – ormai preda dei Mercanti in forza del gorgo creato dalla nefasta onda di risacca della II Guerra Mondiale – Piero Colombani, con il suo Nuovo Gotico, è impegnato in una titanica reazione al caos relativistico dominante. Per usare le stesse parole del Mae-stro, la sua arte «è un messaggio a tutti coloro che sentono quest’epoca ormai totalmente aliena alle esigenze dello spirito».
Si tratta di una dichiarazione molto importante, perché ci riporta alla mente il Dante “mi-nore”, ma decisivo, di Convivio IV XXVIII, 3-13: «Così noi dovremo calare le vele de le nostre mondane operazioni e tornare a Dio». Che mai potrebbe essere, infatti, quel percor-so “Dall’oscurità verso la luce” – come titola la presentazione dell’opera omnia del Maestro sul sito web ufficiale – se non il rifuggire dal buio degli Inferi (dunque all’orrido della «selva oscura») per salire alla luce delle altezze supreme del Divino? D’altra parte, un capolavoro a lungo perfezionato come la “Deposizione” possiede un’aura devozionale che non può es-sere considerata, a questi livelli speculativi, un misero esercizio di simbolismo opportunisti-co: come Dante, anche Colombani, quando parla della Croce, lo fa da persona onesta.
È probabilmente la presenza incombente dei temi cari alla Discesa agli Inferi a distogliere l’attenzione di molti dal tema divino in Piero Colombani. Ma in quel percorso salvifico che è la trasformazione alchemica, è proprio l’Opera al Nero a rappresentare la grande missione dell’artista lunigianese, dunque la condizione naturale del suo Nuovo Gotico. Colombani non pretende affatto di operare la sintesi completa dell’opera alchemica: quella è già eter-namente compiuta nella Divina Commedia. Al più, l’artista, in futuro, potrebbe senz’altro impegnarsi in una illustrazione completa del Poema dell’Uomo in chiave esoterica – una impresa già tentata, per esempio, da William Blake, con le sue celebri 102 tavole – ma il Piero Colombani di questo primo ventennio del Nuovo Millennio è un artista seriamente impegnato nell’eroica battaglia della Civiltà contro l’inciviltà: per Colombani il dovere eti-co primario dell’artista, disincantato osservatore della barbarie che oggi avanza ed incom-be, è quello di risvegliare le coscienze sbattendo in faccia ad una umanità, mai interamente matura, quelle verità scomode che si ostina a non voler vedere o a non volere affrontare. Va da sé che l’arte di Piero Colombani non è la solita produzione per galleristi, non è cosa per mercanti: qui la Storia la si crea, non la si subisce affatto.
Ed è già questa una piccola, grande rivoluzione.

 

L’IMBIANCATURA DEL CORVO
di Sandra Berresford
Storica dell’arte
E’ arduo se non arbitrario, tentare di riassumere in poche pagine, un’intera vita dedicata all’Arte e di illustrare la coerenza straordinaria che ha caratterizzato il Viaggio dell’artista alla coperta di sé. La monografia di Colombani copre 35 anni di intenso lavoro: questo ar-tista Visionario ha attraversato diverse fasi di grandi tormenti esistenziali fino ad arrivare al passaggio determinante da lui definito dal Buio alla Luce, che ha dato vita al suo nuovo linguaggio artistico denominato Nuovo Gotico. In un’epoca che sembra disprezzare la pro-fondità di pensiero,i materiali e l’abilità manuale, Colombani va controcorrente e utilizza come parte integrante della sua arte, tecniche Nell’era della velocità nella quale il tempo è denaro e le immagini vanno e vengono e si dimenticano in un lampo, COLOMBANI procede con la dedizione di un monaco medioevale….nondimeno egli non è chiuso ed ostile al Moderno, purché sia il risultato di studi approfonditi e che partano da un concetto di ana-lisi della Tradizione.
Nella storia, il Periodo Gotico è sempre stato associato alla Spiritualità e in passato ripreso dai Nazareni e i Preraffaeliti in pittura dagli esponenti del Revivalismo Gotico in architet-tura e dai Romantici e Simbolisti in letteratura: Colombani adesso concretizza e dà forma alla sua dimensione visionaria e simbolica, seguendo la tecnica neo-medioevale che ha svi-luppato in tanti anni di lavoro. Per quanto sia possibile che egli non abbia del tutto fugato i suoi demoni, nelle opere del M° Colombani si sta delineando una concezione più armonica dell’Universo. In lui il Nuovo Gotico corrisponde alla nascita di una nuova consapevolezza spirituale, la sua e auspichiamo anche la nostra.

 

IL PROFETA DEL NUOVO GOTICO
La Moderna Miniatura di Piero Colombani
di Annalisa Bellerio
Storica dell’arte
Dentro e fuori i confini geografici e culturali della natia Lunigiana, un artista eclettico e visionario ha reinterpretato col proprio stile le potenzialità espressive dei codici medievali, attualizzandone lo spirito, il linguaggio, il messaggio
È un percorso solitario e poco battuto quello intrapreso da Piero Colombani da quando, a sette anni, dichiarò che avrebbe fatto il pittore, e la sua vita cominciò a fondersi con la sua opera, e la sua opera a essere la sua vita, riflettendone la ricerca, le riflessioni, le sperimen-tazioni, il vasto sapere.
In quarant’anni di attività poliedrica e intensa la sua fama ha superato i bastioni medieva-li della natia Sarzana, in quell’ultimo lembo di Liguria al confine con la Toscana dove egli ancora vive, lavora e insegna, catturando l’interesse di critici come Vittorio Sgarbi e di un vasto pubblico, in Italia ma anche in Francia, Spagna, Russia, dove ha ottenuto riconosci-menti ufficiali e lasciato pubbliche testimonianze.
Artista visionario, che attinge ai temi classici della letteratura, della filosofia e della mito-logia come ai più aggiornati contenuti del dibattito contemporaneo, Colombani si muove fin dagli esordi in un intricato universo di simboli che con la maturità ha trovato nella mi-niatura un ideale terreno di espressione. Le atmosfere cupe e laceranti della sua pittura giovanile attraverso gli anni e un travagliato processo interiore si sono sciolte in un linguag-gio ancora misterioso ma dalla dimensione lirica e sorvegliata, minuziosa nei dettagli, di gusto fiammingo come è stato osservato, dove l’orrido cede il passo alla preziosità allusiva dell’oro e dei lapislazzuli, di materiali desueti come pergamena e carta artigianale, tavole di legno e minerali rari, riscoperti e trattati secondo ricette di testi antichi come il trattato del Cennini. Un passaggio dall’ombra alla luce, sintetizzato dalla formula alchemica della “Imbiancatura del corvo” che dà il titolo all’imponente monografia sull’artista e la sua opera (dal 1973 al 2008), curata dalla studiosa inglese Sandra Berresford.
Nella sua bottega di pittore-alchimista Colombani è un umanista dei nostri giorni che, consapevole dell’inconsistenza di tanti miti contemporanei, punta a tutto ciò che può ridare all’esistenza autentico valore e spessore, e all’uomo una nuova dignità.

 

L’ASSEDIO DEI DEMONI
E ALTRE METAMORFOSI
di Mauro Macario
Poeta e saggista
Viaggiare nel tempo, andare e tornare da un’epoca all’altra è sempre stato il sogno dell’umanità.
L’attrazione per le missioni impossibili è una forza calamitante. Michel de Montaigne diceva che un forte desiderio genera l’avvenimento. Dunque bisogna trovare la giusta energia, la propulsione segreta, il veicolo alchemico. Non è solo una questione di volontà, è una dinamica magica, ciò che dall’illuminismo a oggi si è voluto negare con ironia derisoria, a tal punto che la società odierna ha desertificato il sen-so del mistero non riconoscendo che il pensiero ragionieristico, i meriti matematici, le spiegazioni/cicala di un ciclo vitale brevissimo, da usa e getta.
L’esaltazione del minimo impedisce la manifestazione del massimo e quando s’incontrano i rari individui dotati di percezioni non comuni le si relega in un esilio forzato all’interno della società. Perché abbiamo perduto i codici idonei a riconoscerli. Eppure essi esistono e praticano le loro scoperte quotidiane nell’altrove onirico usando mezzi straordinari. L’arte ne è la forma più rappresentativa e meno ascoltata in quest’epoca infausta di inganni creativi ad uso e abuso di una imposizione di massa che contrabbanda sottoprodotti da discount sotto l’obsoleta e stantìa vendita culturale della cosiddetta modernità o arte con-temporanea. Noi non sappiamo in che secolo sia nato Colombani come pittore e pensatore, non ne possiamo definire l’età con esattezza, né se in questo momento sia qui tra noi o se le sue retrocessioni temporali lo abbiano trasferito nel ‘400 o giù di lì.
Di certo, andare e tornare nel tempo, per lui pare possibile a giudicare dalle sue opere che mantengono con salda coerenza una mano nel medioevo e una nel nostro presente storico. Lui dipinge a due mani. Il nuovo gotico a lui ascritto significa proprio questa doppia resi-denza creativa. Difficile rendere esaustiva un’incursione descrittiva nel suo mondo fantasti-co in poche righe e forse anche in molte di più. È solo uno sguardo lento e assorbente in volo ricognitivo dentro ogni quadro dove risiede il suo incubo universale, a poter decifrare quei gironi infernali dove l’essere umano, tra passato e presente, è assediato dai demoni che lui stesso genera, che nascono dalla sua stessa natura, dai sortilegi malefici di insane predesti-nazioni. In queste forme scarnificate accadono metamorfosi in cui l’uomo è il mostro di sé stesso, lo si vede addirittura emergere dal suo corpo, condividerlo come un fratello siamese, e infine soccombere alla sua vorace prevaricazione.
La fantasia creativa di questo autore è illimitata proprio quando su di una base pittorica e narrativa di stampo antico innesta, a sorpresa, non solo le terrificanti figure della mitologia infernale, ma presenta e ci ammonisce sui demoni attuali identificandoli in quelle presenze che timbrano il nostro degrado e le nostre sottomissioni, le debolezze e le tentazioni accet-tate acriticamente, anzi assorbite come nutrimento avvelenato di cui cibarsi, pena l’estra-dizione psicologica tra i nostri simili. Un processo di autodistruzione che pare inarrestabile nella perdita della dignità e del discernimento, ciò che i grandi poteri occulti propugnano con sottili e subliminali mezzi di comunicazione mediatica disseminati nel villaggio globale che rade al suolo le tradizioni e l’identità di un popolo. Lo stile di questo racconto visivo, attraversato da un surrealismo gotico personale, si avvale di una tecnica pittorica unica e di un virtuosistico disegno che nessuno oggi pratica più.
Nel vedere un quadro di Colombani si ha la sensazione, anzi l’illusione concreta, di poter davvero viaggiare nel tempo, di essere davvero nel ‘400 ma con tutti i fantasmi odierni che mostruosamente ci fanno l’occhiolino prima di divorarci.

 

GIGANTOMACHIA
di Francesco Corsi
Editore per ARTinGENIO EDIZIONI
“Siamo i fantasmi di una guerra che non abbiamo fatto… Per avere aperti gli occhi su di un mondo disincantato siamo, più di qualsiasi altro, i figli dell’assurdo. In certi giorni il non-senso del mondo ci pesa come una tara. Ci sembra che Dio sia morto di vecchiaia e che noi esistiamo senza uno scopo … Non siamo inaciditi: partiamo dallo zero. Siamo nati fra le rovine. Quando siamo nati, l’oro si era già trasformato in pietra”.
La citazione di Paul Van den Bosch, sottoscritta da Piero Colombani, in apertura di questo catalogo doveva essere da me ripresa, alla chiusura di questi saggi, non solo come editore, ma anche come amico del Maestro.
Mi riconosco in effetti nell’essere ectoplasma: vivo ogni giorno la sensazione di stare nel tempo sbagliato, avverto la difficoltà di aderire ad una realtà quotidiana che impone il sa-crificio dell’essere per vivere della gloria dell’effimero, dove trionfa la cultura dell’influen-cer, sullo scenario mondiale della rete tecnologica.
“Partiamo dallo zero”, con la sensazione di vivere in una notte in cui tutte le vacche sono nere, in cui la logorrea si confonde con l’afasia e il rumore assordante con il silenzio di un vuoto, che non è mistico, ma è immersione nell’assurdo.
Nietzsche preconizzava il mercato dove un uomo folle si aggirava con una lanterna alla chiara luce del mattino: “Cerco Dio!”. Quest’uomo veniva deriso dalla folla. Quella stessa folla che derideva l’uomo che cercava Dio, ha fatto morire, insieme a Dio, il mercato mede-simo. Poiché, se un mercato trova senso nella dichiarazione del valore, quando si nasce tra le rovine, dove l’oro si confonde con la pietra, evapora il concetto di valore medesimo. Nella sensazione del caos che si vive per l’assenza di riferimenti semantici, nello smarrimen-to che si prova per la mancanza di uno sfondo comune, nel quale possiamo vivere dei valori estetici e morali, lo sguardo profondo di Colombani trapassa gli sguardi, come l’uomo folle di Nietzsche, e accusa. Da questo j’accuse può rinascere il valore. Una provocazione che si presenta come “ponte” tra il mondo antico e il post moderno, volta a interrogare il tema del valore medesimo.
Colombani si colloca in un mercato di nicchia, fuori dal rumore, dai fenomeni dell’arte di consumo. Ma l’augurio che dobbiamo farci, impegnandoci tutti in primis, è che torni ad esistere un mercato esteso oltre la nicchia, dove gli esseri umani contrattino valore, consa-pevoli dell’oro. Il mondo dell’arte contemporanea ci ha invece abituati ad opere estempo-ranee, incapaci di rispondere ai secoli, che sorgono più come fenomeni di moda che come espressioni davvero epocali, dotate di un’intensività semantica che le renderà eterne.
“Archetipi in metamorfosi” sono, invece, le forme del Maestro, che mettono in scena una gigantomachia, una battaglia per l’essere. La sua opera è “Lux in umbra et pulvere”, una lanterna che illumina di una luce soffusa le caverne del cuore dell’uomo, dove dimorano
mostri apotropaici: figure demoniache e tentatrici che la luce accecante e falsata del “neon” della contemporaneità, cancella completamente, illudendo l’umanità che la tecnocrazia digitale e la scienza positivistica possano depurare l’essere umano. Colombani ha, in questo senso, la capacità di farci percepire col linguaggio simbolico e forte della sua pittura, che i mostri esistono e che una luce contemporanea di una ragione epurata dalla tecnica, non li elimina, ma continua a farli vivere sotto mentite spoglie, assai più pericolose.
Credo che la sua produzione generi uno degli ultimi baluardi e delle ultime occasioni per chi ha orecchi da intendere. Un po’ come l’“Ultimo Dio” che transita nella contemporaneità, colto dall’ascolto sopraffino di Martin Heidegger.

 

TESTIMONIANZE

“Conosco Piero Colombani e la sua famiglia da molti anni perché ho passato la mia infanzia e la mia adolescenza a Sarzana, la sua città natale. Ricordo la sua dedizione all’arte e alla pittura come una vocazione molto precoce e, per certi versi, iniziatica e misteriosa. Non sono un pittore – anche se da qualche anno gioco con tele, colori e pennelli – e non sono un critico d’arte, ma un musicista e il mio punto di vista è naturalmente parziale e non specia-listico. Come amante della sua arte e amico, ho avuto anche la fortuna di collaborare con lui e avere alcuni suoi magnifici dipinti come fondale scenografico per i miei concerti. La ricerca stilistica di Colombani mi ha sempre affascinato per la sua preziosità, assoluta ori-ginalità e, apparente, inattualità. Come nella vetrata di una cattedrale gotica, le figure che dipinge si stagliano ieratiche e smaglianti. Che si rifacciano all’iconografia religiosa o mito-logica, i suoi soggetti vengono reinterpretati alla luce della sua moderna sensibilità ma schiudono sempre una porta sul sacro e sono testimonianza di una ricerca spirituale che lo incalza senza tregua. Quale profonda umanità e drammatica inquietudine trasmette per esempio il suo Uomo crocifisso senza volto che ha accompagnato la rappresentazione del “Poema della Croce”, la mia opera sacra su testo di Alda Merini che ho portato in tutta Italia con la poetessa al mio fianco nel ruolo recitante di Maria. Oppure “Il Capro espiato-rio”, quel nudo maschile accovacciato – che ha fatto da scenografia per il mio concerto “Rasoi di seta” nella suggestiva cornice della Fortezza Firmafede di Sarzana – che evoca nel suo misterioso straniamento antichi riti e tutte le atrocità eterne e contemporanee di que-sto nostro mondo, che troppo spesso ci appare, come direbbe Pascoli, “atomo opaco del male”, e che solo l’arte vera, come quella di Piero Colombani, riesce a illuminare con il suo incendio di senso e speranza.” 

Giovanni Nuti
Musicista e Compositore

 

 

Ho incontrato per la prima volta Piero Colombani attraverso la moglie Carmen Bertacchi. Pur non conoscendolo molto bene, ho subito visto in lui una genialità che mi ha sedotto. L’ultimo linguaggio artistico di Piero, “Nuovo Gotico”, mi intriga veramente tanto… Ve-dere il tempo di oggi attraverso il Medioevo, lo sconvolgimento del pensiero storico attra-verso un mondo magico – che è appunto l’Arte Gotica -, mi ha fatto pensare a Piero come a un “re degli Elfi”.
Gli auguro che la sua arte possa parlare ancora per molto tempo al cuore di tutti noi.

Peppe Barra
Attore e Cantante

 

La Pittura del Maestro Piero Colombani, che ho avuto il piacere di conoscere a Sarzana e seguire attraverso la lettura del suo importante catalogo monografico, lascia sempre un segno forte e riconoscibile per originalità, profondità di contenuti e bravura tecnica.
Le sue incredibili visioni escono dai canoni della consuetudine per le storie infinite e affa-scinanti che costruisce, raccontando il Mistero e il Caos dell’Essere Umano. Il grande e bellissimo Angelo, particolare estratto dalla sua immensa “Deposizione dalla Croce” è una figura piena di mistero e potenza, sta volando alto, in questi anni, nel mio Museo degli An-geli, di Turegano, in Spagna.

Lucia Bosè
Attrice

 

IL PITTORE ANTIMERCATO: ci sono artisti che non avranno mai mercato. Poco male. Anche Leopardi vende meno di Fabio Volo, ma dura nei secoli. Anche Barbana da Modena non compare nelle aste d’arte come Cattelan, ma si trova nei libri di storia, in cui Cattelan non comparirà mai.
Piero Colombani, nato nel 1952 nella Bassa Lunigiana, non ha mercato, e neanche lo vuole. Chi dipinge Deposizioni dalla Croce, di 4 metri per 3 per delle chiese, come l’artista ha fat-to per San Francesco a Sarzana, sa che non verrà mai preso in considerazione dai mercanti perché oggi fare arte cristiana significa essere marginalizzati.
Lui invece continua a farlo, e da anni sta lavorando ad un’opera invendibile per definizione, sempre in divenire, e chissà se sarà finita il giorno della sua morte: un codice miniato che ricalca i codici amanuensi, alto medioevali, una sorta di Evangeliario di Durrow del VII secolo, ma che in realtà è modernissimo: con tempere, colla di pesce, gomma arabica, in-chiostro, il Codex Colombanus ci parla dei desideri, inquietudini, maledizioni del tempo moderno, ma con un impianto stilistico che all’apparenza è gotico e che nella realizzazione è lentissimo.
Qui sta il corto circuito di questo pittore isolato: un mercante va da un artista che vende e gli dice «fammi 100 opere in un anno»; Colombani in un’intera vita forse non finisce il suo Codice.
Sono due mondi diversi: l’39; artista che sforna opere come panini al prosciutto risponde al mercato, al suo cannibalismo; Colombani risponde ai secoli, e di questa lentezza (che è ri-cerca e messa a fuoco) gli siamo molto grati.”

Luca Nannipieri
Storico dell’Arte

 

“… Sono stata testimone in tanti anni di Presidenza del Premio Montale Fuori di Casa del-la meraviglia, dello stupore, dell’ammirazione che prende i Premiati nel momento in cui, dalla grande cartella blu emerge la grande P, Capoverso miniato del Maestro Colombani, che viene loro donata. L’abbiamo scelta fra i vari Capoversi del suo monumentale Codex Colombanus perché quella P è per noi simbolo dell’Associazione Percorsi che da tanti anni gestisce il Premio; perché è l’incipit della parola Poesia, della parola Pace, della parola Pre-mio. Non so se in un mondo come il nostro nel quale la tecnica, il disegno, le capacità pit-toriche hanno sempre meno importanza rispetto alla velocità dell’opera d’arte, il Maestro Colombani vedrà riconosciuto il suo merito. Posso solo essere testimone della meraviglia che i Premiati in tanti anni hanno manifestato quando, sciolti i nodi della grande cartella blu emerge in tutto il suo splendore questo capoverso miniato.”

Adriana Beverini
Presidente del Premio Montale “Fuori di Casa”

 

“Desidero ringraziarVi per avermi donato il cristallo simbolo del Premio nonché la prezio-sa opera d’arte del Maestro Piero Colombani, che Vi chiedo parimenti di ringraziare profondamente per mio conto, il quale con somma maestria il realizzato la miniatura della Iettera E, accompagnata dalla toccante citazione di Leon Battista Alberti, che avete voluto attribuire alla mia persona.”

Emmanuele Francesco Maria Emanuele
Presidente Fondazione Roma e Fondazione Terzo Pilastro, poeta e saggista

 

“La sua espressione, da parte mia, merita un futuro giusto approfondimento, cioè una ana-lisi critica e quella opportuna considerazione che si deve ad un uomo il quale, con profonda onestà intellettuale, s’è dedicato e si dedica completamente all’Arte tramite una autonomia entrata nel proprio tempo espressivo grazie all’analisi del Passato e alla lettura della sua e della nostra Realtà.
A Piero Colombani, che stimo per un serio percorso dove non di rado sosta la farfalla della poesia, dedicherò – spero lo accetti – uno scritto che possa ben figurare accanto ad altri. I suoi grandi dipinti, sino alle miniature, talvolta mi sembrano atemporali, tant’è che nella loro profondità contenutistica – mi spiace dirlo, ma non posso tacere – altro non sono che la giusta risposta a quell’altrui buio al quale siamo spesso attorniati e persino aggrediti. Il grosso pubblico, sovente distratto, ha necessità a tutti i costi di quella verità che gente come lui va donando a piene mani è uno dei motivi per cui lo stimo.
Mi piacerebbe ripetere le esaustive parole di Mauro Macario, là dove ne sottolinea l’illimi-tata fantasia in un saggio, ma chiudo questi miei tratti estivi traendo qualche parola da “Notte”, una delle liriche di Borís Pasternàk che spesso mi hanno accompagnato.
“Non dormire, non dormire, artista,
al sonno non ti abbandonare.
Sei ostaggio dell’eternità,
prigioniero del tempo”.
Piero Colombani sa, capisce.

Lodovico Gierut
Critico d’arte e giornalista

 

“Questo fu il video che ormai quasi sei anni fa mi spinse a lasciare la mia città natìa per andare ad apprendere i segreti dell’arte da questo magnifico artista, Piero Colombani. All’epoca non sapevo che sarebbe nato un tale legame, e che lui e sua moglie sarebbero di-ventati cone dei genitori adottivi.
Piero è sicuramente un padre spirituale, per me.
Oltre all’immensa bravura tecnica, sempre curiosa, fonte di inummerevoli antichi segreti e ricette, è la consonanza di visione della società, del ruolo fondamentale dell’arte, che come lui afferma in questo breve documentario, deve essere leggibile a tutti, perché poi ognuno, in base ai propri mezzi e stati, sensibilità e conoscenza, possa cogliervi molteplici significa-ti, dal più letterale a quello più anagogico e spirituale, trascendente.
L’arte non può essere mera decorazione, rappresentazione di scenari idilliaci, ma strumen-to catartico per eccellenza, deve trasfigurare, sublimare anche le più oscure pulsioni interio-ri, le paure, le più basse tendenze, individuali e sovraindividuali, l’orrore insito nell’uomo e nel mondo, in modo che esse venendo alla luce, si plachino e si possano osservare con di-stanza, vengano così “imbiancate”, stormi di corvi interiori che mutano e divengono final-mente candidi, pacificati.
Il sodalizio che mi lega a Piero Colombani è sicuramente uno dei più determinanti alla mia crescita artistica e umana, un legame di cui sarò sempre grata e orgogliosa di aver avuto la fortuna di creare, nella mia vita. Un Maestro d’altri tempi, che in un mondo in totale deca-denza servirebbe a molti giovani animi, come serve l’ossigeno, un Maestro che guidi a tro-vare sé stessi, artisticamente e culturalmente, secondo l’arte maieutica platonica, e che non consideri un allievo come un vaso da riempire di sterili nozioni.
Oggi, abbiamo immane bisogno di uomini come Piero Colombani, i quali non non si sono lasciati corrompere da questo mondo in rovina, e per questo sono in grado di immaginare e crearne un altro, migliore.”

Lucia D’Asta
Allieva di Piero Colombani

Periodi Artistici

CODEX COLOMBANUS

NUOVO GOTICO

VISIONI DA SOFO

VISIONI DA SHAKESPEARE

 

 

 

 

 

 

 

La porta della luna – 1996 Acrilico su tela, cm 200 x 180

REALISMO MAGICO

L’Era dei Giganti, 1997 acrilico su cartone, cm 12 x 8 cm collezione privata

PERIODO FALCI DI LUNA

OPERE SACRE

PERIODO BUIO OMEGA

 

 

 

 

 

 

 

Il Caprone (nelle spire di Chtulu), 1987 (particolare e intero) olio su tela, cm 250x200 collezione privata

PERIODO VISIONARIO

PERIODO ONIRICO

PERIODO NERO VIOLA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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