Nella mia gioventù ebbi a che fare con il mio carattere scontroso, misantropo e nel contempo ribelle. Rabbia, disordine, malessere ed annientamento, in quegli anni l’ombra era l’unica fonte di luce amica e compagna nei miei viaggi senza meta. Ho sempre provato paura e fascino nei confronti della morte o meglio dei diversi volti di essa, che già da allora collegavo al mondo dell’ altra dimensione, al cosiddetto mondo delle ombre, anche se ancora privo degli specifici strumenti culturali relativi all’argomento.
Sentivo che quel mondo era vicinissimo alla nostra realtà, pur non facendone parte. I terrori notturni che hanno accompagnato la mia infanzia, erano appunto una manifestazione di queste angosce. La paura del buio con i suoi volti oscuri, mutaforma silenti, mi attendevano ogni sera quando il buio scendeva nella mia stanza. In quel tempo disegnavo forme in nero-viola e grigi scuri; animali orrendi con testa umana, nani deformi che si accovacciavano sopra il mio letto per portarmi non so dove, in quel loro mondo di spettri e di tenebra… Il dipingere per me, era il liberare il mondo che mi circondava da quelle presenze: li imprigionavo nella tela, dipinto dopo dipinto. Lavoravo moltissimo tele e tavole e carte di qualsiasi dimensione: esternavo demoni azzurri,forme evanescenti indistinte che ottenevo con grandi campiture di colore e di bianco su fondi lividi e scuri. Non davo molta importanza al giudizio di chi avrebbe osservato poi le mie opere e mi distaccavo emotivamente, quasi subito, da ciò che avevo creato nel quadro: comunque, ormai avevo dato forma a delle presenze oscure che sarebbero rimaste per sempre imprigionate in quelle superfici cromatiche e bidimensionali. Devo dire che questo è servito a farmi conoscere, perché mi disfacevo di quelle opere anche a poco prezzo. La gente era attratta dai miei quadri, seppur criticandoli, probabilmente perché davo forma anche alle loro paure e fantasie più esasperate e contorte, spesso forse alimentandole. Già nel passato, anche se mancavo delle conoscenze tecniche e di disegno odierne, dicevano che i miei dipinti emanassero una forza misteriosa che, seppur mettendo anche a disagio, incuriosiva molto e colmava i loro vuoti inconsci. In quegli anni ero comunque sempre insodisfatto di ciò che evocavo nelle opere, questo era dovuto anche a un mio personale, forte disagio esistenziale. Il mio maestro spirituale di quel tempo era Edgar Allan Poe. A volte penso di essere stato tanto legato a lui da sentirmi un tutt’uno con il suo spirito inquieto: “Sepolto vivo” e “La caduta della Casa Husher” bastano per descrivere sinteticamente le paure e le ansie di quei giorni. Continuavo a dipingere e a distruggere tutto quello che facevo, pochi sono i quadri rimasti di quel periodo, tutti in collezioni private e di cui di molte non ricordo nemmeno il nome. Non illustravo i suoi racconti, sia ben chiaro! Era come se la sua anima si fosse fusa con la mia e dipingevo dando forma a figure spettrali che mi esternavano ombre del mio inconscio, solo dopo che le avevo materializzate nel dipinto. Sposandomi giovanissimo, ho dovuto ridurre le ore di lavoro artistico. Il mio mondo, in parte più sereno in quel periodo, si era aperto all’universo, approfondendo sempre più gli interessi per le materie umanistiche e in special modo la filosofia: riuscivo a creare opere molo più elaborate e con argomentazioni indirizzate alla demonologia e allo studio delle religioni, che mi hanno poi portato a un concetto di Male più cosmico e più definito anche se incommensurabile. Questo mi ha condotto ad avvicinarmi alla poetica e narrativa di Lovecraft che ha caratterizzato gran parte della mia vita, indirizzandomi ad argomenti che sono stati spunto per studi e ricerche molto più approfondite nel campo della cosmologia, fisica, archeosofia e antroposofia, allargando in questo modo anche le mie conoscenze letterarie, leggendo testi ritenuti essenziali alla conoscenza di questi misteri e della Tradizione Ermetica, come: Blavatsky, Guenon, Evola e Shure. Negli anni 70-80 ho dedicato a Lovecarft una mostra personale organizzata dal Comune di Sarzana con tele di grande dimensioni, dedicate alla Maschera di Ismuth, Il riveglio di Chtulhu e Autoritratto dove mi sono rappresentato sotto forma di emanazione ectoplasmatica, unita al Maestro, volteggianti sopra una città fantastica. Il riferimento ai grandi Antichi e Dei Primigeni, erano caratteristica costante di quel periodo, studiando il pensiero dello Splenger, Evola, Burkard mi spingevo verso una katabasis spostandomi indietro nel tempo. Mi sono avvicinato al pensiero dei filosofi antichi, gli Eleati, Pitagora, Platone con gli idealisti, razionalisti, pragmatisti stoici ed epicurei, fino al pensiero di Nietsche, con i capolavori “Al di là del bene e del male”, “Il Crepuscolo degli Dei” e “L’Anticristo”. Sono sempre stato un credente e queste letture mi hanno indotto a conoscere il pensiero gnostico manicheo che ha dato un senso al mio dualismo innato: deposizioni e madonne che si alternavano a demoni orrendi. Si succedevano periodi distruttivi a fasi auree; il male lo vedevo dominante su di un’umanità che non aveva scampo. Nelle mie tele cercavo di fissare quegli istinti, momenti di estrema paura e diffidenza, di fronte ad un male infinito, e all’oscuro potere del Signore del Caos. I dipinti più significativi, specchio di quei momenti intensamente angoscianti, sonoVirus, Notte magica a Tellaro, La palude Stigia (Zombie), che sono riuscito a terminare in brevissimo tempo, con spatolate cariche di colore, sovrapposte a velature di colori puri. In modo totalmente opposto, realizzavo contemporaneamente La Resurrezione di Cristo per la Chiesa del Carmine di Sarzana, La Deposizione nel Sepolcro per il Santuario Madonna del Portone di Caniparola di Fosdinovo e altri soggetti sacri collocati in diverse chiese della Lunigiana. Scene dove la drammaticità era pervasa da una luce che, seppur lontana, era imponente e salvifica nei primi piani dei personaggi. Il mondo dello spirito anteposto alla disgregazione della carne erano un tutt’uno. La forza divina sembrava splendere inverosibilmente sui grovigli insanguinati dei Santi, Martiri o Cristi flagellati. Le scene sacre esternavano eccessivamente un senso di rabbia, furore o violenza della folla inferocita, un particolarismo questo che mi sono portato appresso per molto tempo come bagaglio. Quando, giovane, lessi il racconto di E.A.Poe “L’uomo della folla”, non potevo capire perchè tanto mi affascinasse e mi angosciasse, colmandomi di incubi senza fine: era l’archetipo delle mie fobie che popoleranno i quadri di quegli anni e albergheranno nella mia anima per molto tempo, fino a che Evola e lo studio della Tradizione Ermetica mi hanno saputo dare alcuni strumenti per indossare la mia armatura e combattere contro il drago delle mie dannazioni. Non è stato molto facile, ma dopo aver raggiunto il fondo del mio abisso, ho saputo lentamente riemergere verso la superficie e la luce. Buio-Omega così ho definito l’apice e l’ultimo periodo della mia pittura ad incubo, ha titolato un’esposizione a Palazzo Berghini a Sarzana, dove ho riunito i dipinti: Lezione di anatomia, Il trionfo della morte, La Palude Stigia (o Zombi), I tre stadi del corpo dopo la morte, La strega. Questa mostra fu argomento di vivaci e forti discussioni su tematiche che solitamente eludiamo, ed interesse da parte di critici e studiosi. Posso dire che spesso mi tornano alla mente quei dipinti lontani, che se un tempo mi avevano coinvolto così totalmente oggi rimangono trofei silenti di quegli anni tormetati.
Testi di Piero Colombani estratti dal suo catalogo monografico
La Palude Stigia (Zombie)
(commento critico–poetico dal dipinto “La Palude Stigia” di Piero Colombani)
di Mauro Macario
Non domandarti chi sono queste figure consunte, scremate dalle polveri sottili, che emergono dai fondali di un mare evaporato, lasciale nell’illusione di potersi salvare a riva, cieche tastando un suolo altrettanto avvelenato dove la vita lentamente si spegne a ogni richiamo biologico sempre più debole, come se il battito stesso del mondo fosse sul punto di fermarsi. Sotto quel pellame trasparente, il tocco di un’arpa toracica risuona nel crepuscolo come un’orchestra funebre dai toni gravi e lividi, in moto perpetuo verso l’estinzione. Noi, agonici ballerini della Danza Macabra, abbiamo delegato venditori di pentole e materassai travestiti da statisti, a convergere il destino planetario in una tundra inanimata, piuttosto che in una foresta pluviale, ignorando il monito degli indiani d’America che indicavano nella Madre Terra il ventre animista di tutti i popoli, compreso l’uomo nuovo, quello del treno, del gas nervino, e dello sbrego sodomitico alle nuvole che ci ridurrà in cenere, come un’urna stellare vagante nell’universo con il suo messaggio di vergogna liofilizzata.
Se ben ricordo
mi pare che
cormorani azzurri trasvolassero i cieli
sotto tempeste radioattive
planando oltre l’acquitrino infetto
che circondava la città delle grandi cisterne
li vedevo forare gli addensamenti venefici
sospesi sopra bocchettoni di spurgo
rose di gas rarefatti accennati con arte
da impressionisti chimici
e dirigersi con improvvise cabrate
dove una colonia di foche cieche
sbucate dalla rete fognaria
viveva interrata nelle risaie
forse il ricordo dell’acqua
chissà
era bello osservare i cormorani
cibarsi di bulbi al fosforo
sui campi fiammeggianti
o sorprendere la schiusa delle uova
che crepitavano come bossoli saltati
mentre canali d’irrigazione
riversavano tutto intorno
riccioli schiumosi rigonfi
come la neve artificiale
al tempo dei presepi
la madre azzurra
indifferente alle sirene d’allarme
spiegava le ali al ciclo eroico
delle sue traiettorie
lontanissime
le combustioni serali
lampeggiavano
come falò galattici
sopra la città inanimata
(Parla coi gatti, indiano europeo)
con ogni decisione che prendiamo, noi
teniamo sempre in mente la prossima Settima
Generazione. E’ nostro compito far sì che la
gente a venire, le generazioni ancora non nate,
non abbiano un mondo peggiore del nostro;
anzi, possibilmente migliore. Quando
calchiamo la Madre Terra, sempre poggiamo
con cautela i nostri piedi perché sappiamo
che i visi delle generazioni future ci guardano
dal sottosuolo. Non ci dimentichiamo
mai di loro.
( Oren Lyons, sciamano Onondaga )
(Parla coi gatti è il nome cheyenne di M. Macario l’autore. La poesia appare nel volume “Il destino di essere altrove”)
Madre Terra, madre coraggio, madre di tutte le battaglie e della disfatta finale, madre dell’uomo radioattivo e telepassivo, madre abusiva, madre discarica sempre gravida di scorie tossiche e pandemie mortali, madre d’acqua e di pestilenze, di guerre batteriologice e cadaveri galleggianti sull’incoscienza collettiva, madre abbandonata in un buio ospizio cosmico, madre tsunami che fai il bidé ai tuoi figli sanguinari, madre abortiva e spazzina con un sogno ovarico da disattivare, madre eutanasia che stacchi la spina al mondo terminale in un gesto pietoso di reciproca liberazione: ripudiaci e così sia.
Mauro Macario
Lezione di anatomia
(commento critico–poetico dal dipinto “Lezione di anatomia” di Piero Colombani)
di Mauro Macario
Magìa illusionistica del corpo immaginato, rivestito all’esterno di bellezza e fascino, con tutti gli incanti sensuali che suscita sfilando in tacita offerta ad ogni lusinga; nel sottosuolo della patina dorata invece si mostra nel suo orrore meraviglioso di bipede sezionato, privo di orpelli mimetici, indifeso senza più codici culturali d’accoglimento, imponendo il trauma didattico del suo impatto mortale in una impietosa rappresentazione dove, burattino fatto a pezzi nel mattatoio universale, si riduce a bue squartato di Soutine, reperto anatomopittorico che sconcerta e annienta anche l’esecutore, sconvolto dalla sua stessa chirurgia eretica, che dal corpo passa al nulla, conducendolo al di là del bene e del male, oltre i limiti leciti di una ricerca millenaria, quasi fosse la verità nient’altro che un cumulo di viscere esposte alle coscienze più vanesie, e poi scaricate nella fossa di Beckett a ricoprire la sua lucida angoscia. Luce rossa di sangue che sfuma in una cornice buia, tra i chiodi invisibili di un’autocrocefissione esistenziale. La gamba piegata del cadavere, come in un moto di fuga, è l’umanesimo che resiste alla sua forzata cremazione per costituirsi parte civile. Speranza infinitesimale di riconquistare dignità nel mondo di sopra. L’esecutore, nel frattempo, veleggia nel disastro. Tragedia di un esploratore disormeggiato, alla deriva, solo nei marosi di un delirio forza sette, lontano da ogni sponda salvifica, senza delfini alati in suo soccorso. Destino orfico di chi, cercando l’anima, ha incontrato solo demoni ghignanti e ingannevoli; così uncinato ai loro artigli verrà trascinato sul fondo dove anche l’agognata resurrezione nel sublime giacerà come un relitto abbandonato. Ma in superficie, a pelo d’acqua, già si posano i neri cormorani stingendo alla schiuma lunare, così prossima al biancore dei gabbiani… Non più uccelli della dannazione, ma fratelli di alti voli, purissimi, verso il sole di un’era catartica, di un’identità ricomposta, carica di antichi messaggi ignoti a quest’epoca, tutti da ascoltare con gli occhi.
Sola nel parco
(commento critico–poetico dal dipinto “Sola nel parco” di Piero Colombani)
di Mauro Macario
Quando il buio ha dei rilievi, e non più l’impalpabilità del suo cieco negarsi al tatto, diventa la contraddizione della voragine, volontà di gestirsi come materia, significa che il quadro tenta una metamorfosi, vuole essere una scultura, cerca l’eternità alla donna sulla panchina, marmorea negli squarci inferti ,sacra nella sua morte eviscerata, ignota nel mistero del profilo cereo. Una zattera funeraria sospinta alla deriva da un mistico timoniere che fende le acque dell’Ade dentro il liquame dell’orrore postmoderno. Ma c’è una santità laica di Madonna sdraiata a Central Park che oscilla tra martirio e salvazione, una “Pietà” di cui nessuno ha pietà, che parla alle coscienze letargiche, e s’infiltra negli interstizi della lunga notte epocale rivelandosi, sotto forma di incubo, come lo specchio del massacro planetario. Sdraiata perché non ha più un cielo dove apparire, rivolta alla pietra perché già parte di una lapide, cancellata nell’identità per moltiplicarsi in volo, su altri visi.
Il suo non lo mostra, la bellezza dell’incarnato purissimo si vergogna del nostro tempo e volge lo sguardo a secoli lontani, alla sua origine incontaminata e poi tradita, quando ancora il tratto sguainava la sua spada contro i barbari dell’estetica sanguinaria. Così protetta nella culla amniotica degli antichi Maestri, risorgerà messianica all’Arte, come zampillo di fontana, da un taglio cesareo sulla tela. Quel braccio staccato è il trofeo della solitudine, e anche un addio. Statua mozzata nella carne, reperto immolato ai tombaroli del nostro Basso Impero che in un gotico parco metropolitano
trafficano col passato macellandolo nel presente. Chi eri tu ai tempi dell’anima quando la parola scandita non soggiaceva al silenzio fragoroso di un’eutanasia digitale in promozione globale? Da quale foiba parallela sei caduta sulla panchina, passando dalle braccia di Einstein a quelle di un assassino solitario? Eppure quel braccio che implora soccorso prima di essere inghiottito dalle sabbie mobili della sordità eretta a sistema, pulsa ancora come un cuore che si riproduce nei suoi affluenti venosi sino a ricongiungersi in un unico, vorticoso fiume porpora: come i tuoi occhi che non vedo ma immagino grondanti di offesa, di inermità, di patibolo. Da quale affresco di Chiesa antica, o bordello sudamericano, o periferia europea incendiata, sei venuta a coricarti qui stanotte, come un’apolide stremata, per morire crisalide abortita? Dove andrai così mutilata, eppure perfettamente integra, da incutere timore e inquietudine lungo i tuoi pellegrinaggi atemporali?
Certo domani la panchina sarà vuota, solo i contorni sfumati di una Sindone femminile rimarranno impressi, a testimoniare che qualcosa ci è stato sottratto per scarsa attenzione al bene inconscio di tutti. Diventerai, nella tua assenza, il furto d’Arte più clamoroso della storia perché insieme a te, figura smembrata e meravigliosa, un’intera civiltà sarà scomparsa.
Nel frattempo, lì nel parco, su di un ramo, un corvo sbianca ai primi chiarori dell’alba.
Il Trionfo della morte
(commento critico–poetico dal dipinto “Il Trionfo della morte” di Piero Colombani)
di Mauro Macario
Entrate chini in questo Museo delle Cere, la luce di una cripta vi guiderà in anfratti d’orrore disvelato, come nei labirinti ludici degli specchi deformanti di un Luna-Park cimiteriale.
Bambole d’osso, infanti nella culla, impiccati come pendoli fermi sull’ora della fine, oscillano
appesi all’albero genealogico di una identità collettiva, già infiorata dalla nascita con gemme di crisantemi. Un bazar di chincaglieria biodegradabile che per ogni merce esposta consegna
ai superstiti gli effetti personali e le ragioni d’espatrio.
Sospetto che non sia la vita a riprodurci, ma la morte stessa per soddisfare la sua bulimìa che trasforma il mondo in un banchetto funebre, compreso il sogno dell’uomo di sopravvivere a questa digestione che, a turno, ci rumina trionfante cambiando menù, ma non il ritmo della sua lenta, inarrestabile masticazione. I sogni tritati si mangiano crudi come frutti di mare, un vivaio sul fondo della fossa delle Marianne, dove la Signora apre i nostri gusci corporali spremendo i pianti dell’umanità sulla sua polpa dolente per meglio gustarla, sia a pranzo che a cena. Forse è questo il più tragico e disperato quadro di Colombani dove le briciole del banchetto non hanno nemmeno la pietà di un corvo che le becchetti, sulla scena del delitto nulla deve essere rimosso, ogni forma originaria è sconvolta come cibo avariato, e anche la speranza è stato divorata, come un dessert agrodolce a fine pasto. In questa “ribollita” carniforme tutto è mischiato: amore e pancreas, sensualità e rigor mortis, eroismi e intestini ciechi. L’inferno è qui, perché ad ogni sparizione, la fiamma della nostra pena si alimenta di solitudine bruciante, come al rogo degli assenti. La peste è qui, nell’omologazione di massa, nella svilente cessazione dei meriti, nella sostituzione dei soggetti vivi con gli oggetti inanimati. La trincea della nuova Resistenza etica, fuori da ogni contesto ideologico, rigurgita salme di qualità non riconosciuta. Dove andrà questo carico di passioni devitalizzate? In quale archivio di una memoria universale giaceranno imbalsamate le nostre storie più palpitanti, quelle che avevano dato un significato esaltante a un inutile, transitorio dibattersi? Quale angelo pietoso raccoglierà i resti di un bacio, la bandiera lacera di una rivolta, la tenerezza di un animale scodinzolante? Chi sarà mai il collezionista necroforo di queste cartoline ingiallite a imperituro oblio? Tutti dormono, dormono sulla collina. Sotto le stelle, pacificati nel rimorso, convivono il disertore e il generale, il cretino e il genio, il sognatore e il contabile. La Signora rifà loro il letto, ripiegando un bordo di marmo su quei visi, scivolati nel sonno, alla melodia di una nenia senza ritorno.
Dipinto: Il Diluvio
di Piero Colombani
Ho ascoltato e visto ghigni di disperazione di mostri alieni e creature morenti, il momento della loro angoscia più assoluta: l’attimo che precede la fine! Una umanità di esseri blasfemi!
Questo è quanto avevano creato gli antichi Dei. Tutto iniziò quando insegnarono le arti magiche, i sacri misteri, l’astronomia malgrado non possedessero l’adeguata preparazione. Si innescò un processo degenerativo, forze caotiche si impadronirono di ogni essere senziente e l’umanità crebbe nell’abominio ed in ogni sorta di male. Di quell’era, avvolta nel buio dei secoli, sono rimasti gli arcani misteri e sappiamo che esseri infiniti invadono da sempre le strade, e si nascondono in ogni luogo: nel mare, dentro le montagne, sotto le pietre, nelle rovine, nei sotterranei, negli incavi delle sequoie secolari.
Molte volte emergono dalle tenebre più chiuse e più nascoste. Una parte di queste entità sono note all’uomo già dai tempi antichi altre, occultate, sono in attesa del giorno della fine, ma quelle che più incarnano l’essenza del male, rimangono avvolte dall’oscurità più profonda e sconosciuta. L’immane cataclisma che nelle tradizioni è menzionato come Il Diluvio Universale, ha portato solo una distruzione limitata; ha distrutto la loro forma umana ma non la loro essenza. Essi attendono di poter riprendersi ciò che un tempo era loro: la terra !
Ramsey Campbell in “The Orror from the Bridge” (1964) riporta un brano tradotto dal latino da Olaus Wormius: come nei giorni in cui i mari coprivano le terre, quando Chtulu camminava potente nel mondo, e altri volarono nei golfi dello spazio, così in alcuni luoghi della terra verrà trovata una grande razza giunta da fuori, che ha abitato nelle città, pregando e adorando in templi oscuri celati nelle profondità. Le loro città sono ancora sotto la superficie, ma raramente costoro emergono dai luoghi sotterranei. Sono stati racchiusi in alcune località, dal sigillo degli antichi Dei, ma possono essere liberati, con parole note, solo a pochi.
Ciò che ha fatto dell’acqua la sua dimora ,dovrà essere liberato con l’acqua e quando Glyn’uho, si troverà nella posizione opportuna, le parole causeranno una inondazione che rimuoverà infine il sigillo di coloro che vengono da Glyn’uho.